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Torna alla home page... Data Odierna: 29 Marzo 2024   
IL RUOLO DELLA STAMPA E LE PERCEZIONI RIGUARDO IL FENOMENO DEI RIFUGIATI: NOTIZIA O ENFASI VERBALE?

di Stefania Tessari
Articolo vincitore dell’edizione 2018 del concorso "Scrivi un articolo tratto dalla tua tesi"
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Titolo tesi: ATTITUDES TOWARDS THE PHENOMENON OF THE REFUGEES: EVIDENCE EMERGING FROM AN ANALYSIS OF THE VERONA AREA
Materia: Public Sector Economics – Scienza delle finanze
Relatore: Veronica Polin
Corso di Laurea magistrale in Economics
Data di laurea: 27 novembre 2017
Votazione finale: 110/110 e lode

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“Ti ringrazio mare, perché ci hai accolto senza visto né passaporto…
Ringrazio anche voi, diventati tristi al sentire la nostra tragica notizia.
Mi dispiace se sono affondato in mare”
Lettera anonima

Il noto attivista per i diritti umani, Malcolm X, un giorno affermò “Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono”.
Rifugiato, richiedente asilo, immigrato, migrante economico, profugo, clandestino… Tanti termini, altrettante definizioni, ma le drammatiche immagini che affiorano, tra le onde del mare, e giungono alla mente non si discostano molto l’una dall’altra. Barconi stracolmi di persone che non possiedono nulla, ma sono animate da un’unica coraggiosa speranza: raggiungere la costa di un paese che possa offrir loro un futuro migliore di quello che il disastrato paese d’origine, lasciato dolorosamente alle spalle, possa offrire. Come orientarsi tra la miriade di notizie fornite dai media e i proclami più o meno allarmistici dei politici riguardanti la questione immigrazione? Viene veramente adottata la sensibilità che una tematica così delicata meriterebbe? Come questa condotta può impattare sulla formazione delle percezioni dell’opinione pubblica al riguardo?

Al giorno d’oggi, tra le tematiche che maggiormente stanno animando lo scenario politico a livello globale, figura, emergendo con sostanziale importanza, la questione migratoria. Il dibattito che, inevitabilmente, deriva da tale problematica sociale presenta la particolarità di coinvolgere, contemporaneamente, diversi piani concettuali, andando a toccare sfere di diversa natura. Infatti, nell’intento di approfondire il fenomeno dell’immigrazione, specialmente se declinata nella fattispecie dei rifugiati, è inevitabile trovarsi a riflettere su considerazioni che presentano una natura sia sociale, che etica, così come politica ed economica. Ad avvalorare ulteriormente la rilevanza di questa tematica e tutti i risvolti che ne derivano, vi è l’entità stessa dei flussi migratori, di cui si può avere cognizione e reperire facilmente informazione, facendo riferimento alle statistiche pubblicate dalle principali fonti ufficiali. Quindi, la consistenza, in termini di dimensioni dei flussi, unitamente alla natura molteplice e sfaccettata della tematica, in termini di conseguenze, danno un’idea di quanto questo fenomeno meriti di essere “raccontato”.

In questo contesto, risulta interessante esplorare come i cittadini si rapportino al fenomeno dei rifugiati. Come vengono percepiti dalla società? Tale percezione rischia di impattare sulla buona riuscita e l’efficienza delle politiche di accoglienza o integrazione, implementate dallo Stato?
Assume, perciò, notevole rilevanza indagare, come è stato fatto diverse volte in letteratura, il ruolo ricoperto da specifici fattori, caratteristiche e attributi (sia “country-level” che “individual-level”) nell’influenzare quelle che in dottrina vengono nominate “attitudes”, ovverosia gli atteggiamenti, la mentalità, o, in altre parole, le percezioni rispetto ad un dato fenomeno.

Andando per ordine: chi sono i rifugiati? Cosa li caratterizza? Cosa li differenzia dalla figura del generico migrante? Volendo scandagliare le varie definizioni, è necessario trascendere un approccio superficiale che fa confluire tutti i migranti in un unico gruppo onnicomprensivo e indistinto di persone. La categoria dei rifugiati, infatti, pur riguardando un fenomeno ascrivibile a quello della generica migrazione, coincide con una particolare fattispecie di migranti, giuridicamente definita (Convenzione sullo status dei rifugiati, Cap. 1, Art. 1 "Definizione del termine di 'rifugiato'", Ginevra, 28 luglio 1951), cui, secondo il diritto internazionale, spetta la salvaguardia di una serie di diritti.

Nell’universo di possibili fattori in grado di influenzare le percezioni del fenomeno migratorio, il ruolo della stampa appare determinante e meritevole di un focus specifico per analizzarne le conseguenze.

Come il ruolo ricoperto dalla stampa nel delineare e tracciare un fenomeno si intreccia con l’analisi di una tematica così socialmente rilevante? In altre parole, la stampa che funzione ricopre in tale contesto?

Ignorare gli aspetti caratterizzanti di un fenomeno genera paura, così come non conoscerlo direttamente. Inoltre, i mezzi d’informazione rappresentano, per una parte rilevante della società, l’unico strumento per formare le proprie opinioni in merito al fenomeno dei rifugiati. Da qui la necessità che questo ruolo venga ricoperto in una modalità eticamente e deontologicamente corretta, che non sottovaluti le eventuali conseguenze deleterie che una sua cattiva condotta può comportare.
In particolare, fra i principali punti critici, che dovrebbero essere evitati nell’attività perpetrata dalla stampa, figurano, sicuramente:
- l’utilizzo di associazioni fuorvianti (per esempio, in termini di eventi negativi), che possono determinare un “ritratto” dei rifugiati e richiedenti asilo che oscilla tra il “piccolo criminale” e il “malvivente”. Ciò rischia di stigmatizzare questo gruppo di persone;
- l’utilizzo di terminologia inappropriata, scelta superficialmente, riferendosi ad accezioni di significato sbagliate (“clandestino”, “profugo”, etc.). Questo, infatti, rischia di determinare ulteriore confusione, dando adito ad altre “ri-denominazioni”, in un contesto fenomenologico già di per sé critico.

La noncuranza di questi due aspetti può generare attitudes negative da parte di chi non conosce questo fenomeno direttamente, ma lo può conoscere unicamente tramite i ritratti e le scelte giornalistiche operate dai media.

E per quanto concerne chi ha sperimentato un rapporto di “vicinanza”? Se esistesse una sorta di dicotomia, ovvero di differenza, nelle percezioni? Da un lato le percezioni di chi conosce direttamente il fenomeno, essendovi entrato in contatto senza intermediari, dall’altro chi lo conosce attraverso il “filtro” dei media.

Interessanti ed esplicativi, a questo proposito, appaiono i risultati emersi da un recente questionario, somministrato ad “addetti ai lavori” (operatori e coordinatori di associazioni e cooperative ospitanti rifugiati e richiedenti asilo) che ha preso in esame, dal punto di vista geografico, la realtà di Verona, nell’Ottobre 2017. L’indagine ha analizzato le percezioni declinate in diverse aree. Tra queste: il fenomeno stesso (paura/propensione) sulla base dell’esperienza di personale contatto con i rifugiati, il ruolo ricoperto dalla stampa nell’influenzare le attitudini rispetto al fenomeno dei rifugiati, e il rapporto di vicinanza sperimentato dagli intervistati (in termini di ore o giorni).

Tra le evidenze più rilevanti, emerge una tendenza considerevole, nei risultati dell’indagine, tale da suggerire che la vicinanza e, conseguentemente, la conoscenza diretta e personale del fenomeno, possa apportare benefici alla considerazione e alla propensione nei confronti di tale categoria di persone, quali rifugiati e richiedenti asilo. Tra i dati più illuminanti: l’88,9% di coloro che sono entrati in contatto diretto, senza intermediari, giudicano positiva la loro personale esperienza con i rifugiati, e 2 su 3 la ritengano “molto arricchente”.

A valle di tutte le considerazioni emerse, illuderci di arginare il fenomeno migratorio (sbandierando slogan elettorali come “Qui non li vogliamo”, che alimentano i pregiudizi) è utopistico e impensabile. E’ necessario, infatti, convivere con questo, senza ricorrere all’amplificazione e all’enfasi verbale adottata sia dalla politica che dai media, che mirano a parlare “alla pancia” delle persone. Entrambi dovrebbero, piuttosto, dirottare e focalizzare la loro attenzione, affrontando e descrivendo il problema, nella sua complessità e reale dimensione. In questo modo si allontana il rischio della ghettizzazione, che ha portato a conseguenze e ripercussioni di reazione e violenza, basti pensare alle banlieues francesi. L’integrazione è la più efficace arma contro la radicalizzazione. Essa rappresenta un progetto sicuramente più impegnativo, ma allo stesso più lungimirante, per far sì che queste persone non si sentano escluse a priori.

Fino ad oggi, in Italia, come in Europa, il fenomeno ha assunto dimensioni di fattibile e possibile accoglienza, il problema dipenderà unicamente dalla rapidità e intensità con cui eventualmente si potrebbe evolvere. Non si tratta di invasioni, ma di flussi migratori gestibili, soprattutto nel caso dei rifugiati.

In conclusione, l’accento va posto sull’importante significato di “Democrazia”. La democrazia può effettivamente funzionare, dal punto di vista sostanziale, se è garantito un certo livello di istruzione e cultura nei cittadini. Questi sono i cardini fondamentali che permettono all’individuo di formulare una riflessione critica, che non deve essere temuta. Si corre il rischio, altrimenti, che la stampa, decidendo di informare poco o male, non garantisca né la consapevolezza del lettore, né la riflessione critica, senza la quale, l’etichetta è “Democrazia”, ma la sostanza è “populismo”.
La realtà, storica e sociale, nelle sue problematiche reali, può essere affrontata solo con un serio ed appropriato uso della verità.

Per assicurare il successo e la buona riuscita delle politiche, e gestire questo complesso e sfaccettato fenomeno, all’opinione pubblica dev’essere fornita la possibilità di contare su una buona e corretta informazione, che non fomenti, in maniera infondata, gli animi, aumentando una percezione di paura e insicurezza, ma che offra una “narrativa” onesta come quella suggerita, qui sotto, dalle parole dell’autrice nigeriana, Chimamanda Ngozi Adichie:

“In Igbo, la mia lingua, la parola che usiamo per “amore” è “ifunanya” e la sua traduzione letterale è “vedere”. Perciò mi piacerebbe suggerire, oggi, che è arrivato il momento per una nuova narrativa, una narrativa in cui vediamo realmente coloro di cui parliamo. Raccontiamo una storia diversa. Ricordiamoci che lo spostamento di esseri umani sulla terra non è nuovo. La storia umana è fatta di spostamenti e mescolanza. Ricordiamoci che non siamo solo carne e ossa. Siamo esseri che provano emozioni. Condividiamo tutti il desiderio di essere apprezzati, il desiderio di essere importanti. Ricordiamoci che la dignità è tanto importante quanto il cibo”.