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Torna alla home page... Data Odierna: 16 Aprile 2024   
UNIONE EUROPEA E STATI UNITI D'AMERICA TRA POPULISMO E GLOBALIZZAZIONE

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Francesca Sola
Laurea Triennale in Economia e Commercio
Sede di Vicenza
Votazione: 110/110 e lode
Relatore: Prof. Riccardo Fiorentini
Data di laurea: 9/09/2020
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“È l'alba di una nuova era!”. Con questa esclamazione il 31 gennaio 2020 il Primo Ministro britannico Boris Johnson salutò la formalizzazione del “divorzio” tra Regno Unito e Unione Europea, a seguito del referendum tenutosi nel 2016.
Al di là dell'Oceano Atlantico, Donald Trump, al grido di “America first”, nel novembre 2016 riuscì a vincere le elezioni presidenziali, divenendo il 45° inquilino della Casa Bianca.
Durante la campagna elettorale aveva sfidato la candidata democratica Hillary Clinton, sfoderando la potente arma di una retorica incentrata sulla promessa di rimettere al centro dell'agenda politica le istanze dei lavoratori americani, umiliati, a suo dire, da politiche che avevano per anni privilegiato gli interessi delle élite e degli immigrati.
Tornando a focalizzare l'attenzione sul Vecchio Continente, in quasi tutti i Paesi europei si è registrato, negli ultimi anni, un progressivo aumento dei consensi elettorali verso forze politiche, alcune delle quali divenute forze di governo, che si dichiarano fortemente critiche verso il progetto di integrazione europea, facendosi promotrici di un rinnovato sentimento nazionalistico e sovranista.
Cosa accomuna questi eventi e le forze politiche di cui si è accennato? Numerosi osservatori internazionali e scienziati sociali sono concordi nel riscontrare i caratteri di un particolare fenomeno politico denominato populismo, il cui recente successo elettorale, determinato anche da cause di natura economica, ha avuto conseguenze nel sistema di relazioni commerciali globali.
La scelta di approfondire questa tematica nasce dalla constatazione, emersa da diversi contributi di economisti e politologi, che il populismo possa rappresentare una forza capace di determinare un'inversione di tendenza rispetto al processo di globalizzazione economica, avviatosi negli ultimi decenni del secolo scorso, attraverso la sempre maggiore apertura e integrazione dei mercati internazionali.
In primis è necessario, tuttavia, fare un passo indietro, per tentare di comprendere il
significato del termine “populismo”, attraverso l'analisi delle sue prime manifestazioni.
Infatti, sebbene da un lato il populismo rappresenti il leitmotiv degli ultimi anni, non deve tuttavia essere considerato una novità nella scena politica globale.
I primi esempi di movimenti populisti si manifestarono nel XIX secolo, in Russia e negli Stati Uniti.
Nel primo caso si trattava di movimenti rivoluzionari che ambivano a sovvertire il regime zarista e rimettere al centro gli interessi della massa dei contadini, ritenuta moralmente superiore agli intellettuali e ai capitalisti che ormai dominavano il mondo occidentale.
Negli Stati Uniti, invece, nel 1891 nacque il People’s Party. Questo partito si poneva l’obiettivo di dare nuovamente voce ai piccoli proprietari terrieri, a fronte dei radicali mutamenti socio-economici derivanti dalla Guerra di Secessione, dalla quale uscì vincitrice la nascente classe industriale del Nord. Nella retorica di questo movimento il contadino americano veniva assunto come esempio di cittadino virtuoso, alle cui doti avrebbe dovuto uniformarsi l'intera società, al fine di ripristinare giustizia sociale e purezza morale.
Queste prime forme di populismo furono presto destinate al declino. Non rimasero, tuttavia, isolate. Nella prima metà del XX secolo in alcuni Paesi dell'America Latina si affermarono attori politici come Juan Perón in Argentina e Getúlio Vargas in Brasile. Fu proprio l'ascesa al potere di questi esponenti a stimolare un dibattito accademico sul concetto di populismo.
Da questa analisi emerse innanzitutto che l’aspetto essenziale del populismo è rappresentato dal ricorso ad una retorica incentrata sull'idealizzazione del popolo. Tale entità viene assunta come omogenea, nonché ritenuta depositaria dei valori e delle tradizioni da preservare nella loro purezza e difendere dalle azioni predatorie di una contrapposta élite. Quest'ultima viene dipinta come un ristretto gruppo di individui, accusati di agire ai danni di chi vive onestamente del proprio lavoro pur di mantenere la loro ricchezza e prestigio sociale.
Emerse, inoltre, che i movimenti populisti tendono a dimostrare insofferenza verso i meccanismi tipici della democrazia rappresentativa. Tale sistema ha una duplice finalità: da un lato a tutelare i diritti individuali da eventuali prevaricazioni della maggioranza, attraverso l'applicazione della legge e dall'altro lato mira all'individuazione, all'interno delle istituzioni rappresentative, di una sintesi dei contrapposti interessi di volta in volta emergenti all'interno di una società intrinsecamente e inevitabilmente dominata dalle diversità. Il perseguimento di questo duplice obiettivo, in sintesi, è finalizzato a garantire un'adeguata protezione di coloro i quali sono portatori di istanze particolari. Nello specifico, ci si riferisce alle minoranze etniche, linguistiche e religiose, i cui diritti potrebbero non essere adeguatamente riconosciuti dalle forze politiche che rivendicano il loro impegno a difesa di una presunta omogeneità del popolo.
Una questione centrale di cui si sono occupati numerosi studiosi negli ultimi anni è rappresentata dalle determinanti del crescente consenso verso i movimenti populisti.
Dall'analisi della letteratura è emerso il ruolo determinante dell'insicurezza economica nel modificare l'orientamento politico degli elettori. In particolare, quando le condizioni economiche peggiorano, i cittadini tendono a percepire inadeguati i partiti politici fino ad allora in carica, ritenuti incapaci di offrire un'adeguata protezione alle fasce della popolazione maggiormente esposte alle conseguenze negative di particolari eventi economici. Tra questi vengono citati soprattutto la globalizzazione e la crisi finanziaria scoppiata nel 2008, che in breve tempo ha sortito i suoi effetti nefasti anche sull'economia reale.
La globalizzazione è un fenomeno avviatosi negli ultimi decenni del secolo scorso. Intesa in senso economico, essa è definibile come il risultato dell'apertura dei mercati dei singoli Stati per favorire la circolazione delle merci, della forza lavoro e il trasferimento di capitali da un Paese all'altro. Tra i vantaggi di tali dinamiche, viene in rilievo una maggiore efficienza nell'allocazione delle risorse, grazie all'incremento del grado di competizione tra le imprese operanti in un mercato di dimensioni globali.
Occorre precisare, tuttavia, che la globalizzazione ha portato con sé anche effetti deleteri, tra cui l'acuirsi delle disuguaglianze sociali. A farne le spese sono stati soprattutto i cittadini europei e statunitensi a bassa specializzazione, occupati nel settore manifatturiero, maggiormente esposto alla competizione commerciale con i Paesi emergenti, in primis con la Cina, la cui produzione risulta maggiormente competitiva “grazie” ad una legislazione meno stringente in materia di tutela dei lavoratori, ai quali viene corrisposto un salario nettamene inferiore rispetto alla media dei Paesi occidentali.
La crisi economica del 2008 ha ulteriormente aggravato questo scenario. Questa circostanza ha inevitabilmente innescato un crescendo di incertezza economica, soprattutto nei Paesi mediterranei. Se, infatti, da un lato la contrazione della produzione ha portato ad un sensibile incremento della disoccupazione di lungo periodo, dall'altro lato l'elevato debito pubblico accumulato nei decenni precedenti ha reso estremamente difficile, per i singoli governi, offrire ai soggetti svantaggiati un'adeguata protezione sociale ed efficaci politiche attive per il lavoro, stante la necessità di contenere la spesa pubblica.
Di conseguenza, in mancanza delle condizioni per poter aggiornare le loro competenze, per molti individui privi di occupazione si è drasticamente ridotta la probabilità di reinserimento nel mercato del lavoro.
Oltre a questioni legate alla situazione economica, è stato inoltre dimostrato che il consenso verso i partiti populisti cresce in presenza di un minore livello di istruzione.
Questa caratteristica si manifesta sotto forma di incapacità, da parte dei cittadini, di riconoscere preventivamente il rischio di insostenibilità delle politiche economiche e di protezione sociale incentrate sulla massimizzazione dei risultati a breve termine.
L'emblema di questo tipo di proposte politiche è dato dal protezionismo attuato dal Presidente statunitense Donald Trump, soprattutto nei confronti della Cina.
Quest'ultima ha conosciuto una straordinaria crescita economica a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, a seguito dell'introduzione di riforme che hanno permesso il passaggio da un'economia pianificata ad un'economia di mercato.
La successiva adesione all'Organizzazione Mondiale del Commercio, avvenuta nel 2001, aveva portato ad un'ulteriore crescita dell'economia cinese grazie ad una maggiore integrazione con i mercati internazionali.
La forte crescita della Cina, e il conseguente maggior peso politico nella scena internazionale, rappresenta la cornice dell'emergere di contrasti tra Stati Uniti e Cina a partire dall'elezione dell'ex Presidente Donald Trump.
Quest'ultimo, fin dalla campagna elettorale, aveva identificato nel crescente deficit commerciale con la Cina la causa della diminuzione dell'occupazione nel settore manifatturiero e, in generale, la deindustrializzazione degli Stati Uniti.
Una volta eletto, Trump intraprese politiche commerciali fortemente protezionistiche, tramite l'applicazione di dazi doganali sui prodotti realizzati nel territorio cinese e importati negli USA, per un valore complessivo di 487,35 miliardi di dollari da marzo 2018 a dicembre del 2019. La Cina, a sua volta, rispose con analoghe contromisure commerciali nei confronti dei prodotti americani.
La domanda alla quale ho cercato di rispondere, basando l'analisi sulla teoria economica, è: davvero il protezionismo può rappresentare una soluzione al problema del crescente deficit commerciale nei confronti di un altro Paese? La risposta è negativa, essenzialmente per tre ragioni.
Innanzitutto occorre precisare che il deficit commerciale (ossia l'eccedenza delle importazioni rispetto alle esportazioni) dipende da dinamiche interne.
Tale deficit, infatti, sommato al disavanzo di bilancio pubblico, è pari all'eccedenza degli investimenti (pubblici e privati) rispetto al risparmio. Per invertire questa tendenza, dunque, occorre agire su fattori legati alle scelte di consumo e investimento dei soggetti economici privati (famiglie e imprese), e del settore pubblico, responsabile dell'implementazione delle politiche economiche.
In secondo luogo, nel caso degli USA, non appare indispensabile assicurare, attraverso l'incremento delle esportazioni, un aumento di riserve di valuta estera per finanziare le importazioni. Il dollaro, infatti, rappresenta una valuta utilizzata in tutto il mondo pe le transazioni internazionali.
Infine, non si può trascurare il fatto che sempre più spesso le filiere produttive non si concentrano più soltanto all'interno di un Paese. Ne consegue che molteplici imprese vengono penalizzate in presenza di dazi, che fanno incrementare il prezzo delle materie prime e dei componenti importati da quei Paesi colpiti dalle misure protezionistiche. Questi maggiori costi, infine, si ripercuotono sui consumatori finali, costretti a corrispondere un prezzo più alto per acquistare i prodotti finiti.
In conclusione, si può affermare che il populismo, seppure possa presentarsi come una panacea agli effetti perversi di alcuni fenomeni di carattere economico, in primis la globalizzazione, risulti in ultima analisi incapace di fornire un'adeguata tutela a chi ne è maggiormente colpito.
Da un lato, politiche economiche estremamente espansive potrebbero portare, nel lungo termine, all'insostenibilità del debito pubblico, in particolare in presenza di un adeguato livello di crescita economica. Dall'altro lato, il nazionalismo economico (di cui il protezionismo è espressione), potrebbe mettere in discussione il sistema multilaterale di libero scambio istituito al termine del secondo conflitto mondiale e che, nonostante le innegabili imperfezioni, ha garantito un maggiore livello di benessere e pace.




Francesca Sola