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L'imprescindibilità delle plusvalenze nel calcio contemporaneo
____________________________________________________________________________________________ Francesco Galvagni Laurea Triennale in Economia aziendale Titolo della tesi: I bilanci delle società calcistiche, il caso plusvalenze Votazione: 95/110 e lode Relatore: Prof. Riccardo Stacchezzini Data di laurea: 06/09/2022 _____________________________________________________________________________________________ Volendo parlare della mia tesi di laurea, bisogna necessariamente partire dall’agosto del 2018, quando un allora ragazzo da poco divenuto maggiorenne, (il sottoscritto) stava vivendo a San Martino di Castrozza la sua ultima estate da liceale, in procinto di iniziare l’ultimo anno che lo avrebbe portato a sostenere la maturità. Tra una camminata sui sentieri dolomitici e i pomeriggi di relax in piscina, quel ragazzo, appassionato di calcio (oltre che aspirante giornalista), tifoso e abbonato del Chievo, già allora più interessato al lato economico e gestionale dello sport cardine del panorama sportivo italiano, piuttosto che agli aspetti prettamente tecnici e legati al campo di gioco, si teneva costantemente aggiornato sulle notizie di quel calciomercato che si apprestava ad entrare nella sua fase conclusiva prima dell’inizio della stagione. In quei giorni, però, la notizia sportiva che maggiormente impazzava era quella della richiesta da parte della Procura della Federazione Italiana Giuoco Calcio di 15 punti di penalizzazione (con la conseguente retrocessione) per il club da lui sostenuto, che si stava apprestando ad iniziare il suo undicesimo campionato consecutivo in massima serie. Alla base della volontà di punire il Chievo, ci sarebbero state delle presunte plusvalenze fittizie prodotte tra il sodalizio del presidente Luca Campedelli e la società calcistica del Cesena (nel frattempo fallita) per un importo di circa 25 milioni di euro. La giustizia arriverà poi, a settembre, a comminare una penalizzazione effettiva di tre punti per i gialloblù, che al termine della stagione avrebbero terminato all’ultimo posto della classifica il proprio campionato, retrocedendo in Serie B e compiendo il primo passo verso il baratro che due anni più tardi sarebbe coinciso con l’esclusione dai campionati professionistici per inadempienze tributarie. Una vicenda, quella sopra descritta, che avrebbe suscitato un particolare interesse in quel ragazzo, che una volta terminate le superiori, si sarebbe poi iscritto al Corso di Laurea in Economia Aziendale, avendo chiaro praticamente fin dall’inizio di voler incentrare la propria futura tesi sull’analisi dei bilanci delle società sportive (in particolare quelle calcistiche), ponendo un particolare accento sulla produzione delle plusvalenze da parte di tali società, fossero esse reali o appunto “fittizie”; argomento quest’ultimo, tornato proprio recentemente al centro della cronaca sportiva e non solo. Per parlare di plusvalenze è però innanzitutto fondamentale definire che cosa effettivamente s’intenda. Plusvalenza per definizione collima con “l’utile derivato dalla vendita di un titolo o immobile che è aumentato di valore rispetto al momento dell’acquisto. La differenza positiva tra il prezzo di acquisto e quello di vendita è appunto la plusvalenza”. Applicate al calcio, le plusvalenze si possono ricercare all’interno delle operazioni di compravendita dei calciatori (il valore dei cui cartellini costituisce un vero e proprio bene per le squadre professionistiche, da iscrivere all’interno delle immobilizzazioni immateriali nel bilancio) in sede di calciomercato, attraverso il cosiddetto “player trading”. Un esempio di plusvalenza è il seguente: ipotizziamo una società Alfa che compri dalla società Beta un calciatore a 10 milioni di euro, sottoscrivendo con lo stesso un contratto da 5 anni, generando quindi una quota di ammortamento annua (ripartizione del costo di acquisto per gli anni di contratto) di 2 milioni di euro. Se dopo tre anni la società Alfa cede alla società Gamma l’atleta in questione per 20 milioni di euro, Alfa registrerà una plusvalenza di 16 milioni (20 milioni, prezzo di cessione, da cui vanno tolti 4 milioni del valore a bilancio, ovvero 10 milioni per l’acquisto detratti 2x3=6 milioni, quote di ammortamento relative ai tre anni nei quali il giocatore ha militato nella società Alfa). In questi termini dunque la produzione di plusvalenze non sembrerebbe comportare alcun apparente tipo di problematica, che sorge invece quando si parla di “plusvalenze fittizie”. Con quest’ultima dicitura ci si riferisce alla pratica attraverso la quale due società (come nel caso di Chievo e Cesena) producono delle plusvalenze attraverso dei valori “gonfiati” di certi giocatori, solitamente giovani e meno noti al grande pubblico, spesso provenienti dal settore giovanile, attraverso uno scambio tra i due club per lo stesso corrispettivo e dunque senza un’effettiva movimentazione di cassa. In sede di redazione del bilancio mentre il ricavo (dunque la cifra ipoteticamente incassata) è direttamente iscrivibile in toto, il costo è invece ripartibile attraverso l’ammortamento (precedentemente citato) per gli anni di contratto che si andranno a sottoscrivere con il giocatore in entrata. Se ad esempio la società Alfa cede a Beta un giocatore per 5 milioni di euro, e la società Beta ne cede contestualmente uno ad Alfa per il medesimo corrispettivo, entrambe le società potranno immediatamente iscrivere a bilancio un ricavo di 5 milioni, mentre potranno suddividere il costo per gli anni di contratto che sottoscriveranno con il giocatore. Con un contratto di 5 anni la quota di costo di competenza dell’anno sarà di un milione di euro, rinviando agli esercizi a venire l’impatto negativo dell’operazione. Queste manovre, definibili come “plusvalenze incrociate” o “plusvalenze a specchio” sono però molto pericolose e dannose per i bilanci dei club, per i quali si può arrivare a parlare di “doping finanziario”, tradotto: nessuno guadagna veramente dei soldi, i benefici sono puramente di natura contabile e hanno un’utilità unicamente nell’immediato. L’interrogativo che sorge dunque spontaneo è, perché le società ricercano con sempre maggiore frequenza e insistenza questa pratica? La risposta, come spesso, o sempre, accade, non è univoca. In primo luogo è necessario sottolineare come la composizione della torta dei ricavi delle società sportive (con particolare riferimento a quelle calcistiche), equiparabili di fatto a delle vere e proprie imprese, ha subìto negli anni un profondo mutamento. Se prima infatti la principale fonte di introito di un club derivava dai cosiddetti “ricavi da botteghino” riconducibili all’incasso per la vendita di biglietti e abbonamenti per assistere alle gare della squadra, questi hanno progressivamente assunto un declassamento della propria centralità fino ad arrivare di fatto ad azzerarsi in epoca pandemica: nella parte finale della stagione 2019/2020 e per l’intero campionato 2020/2021 si è assistito ad uno svolgimento delle partite “a porte chiuse” e dunque senza pubblico pagante. Particolare centralità hanno invece assunto i ricavi per la cessione dei diritti audio-televisivi, con l’apertura alle televisioni a pagamento, avutasi a partire dal 1993, che ad oggi costituiscono la principale fonte di ricavo per le società italiane, sempre più “schiave delle pay-tv”. Seguono poi i ricavi da sponsorizzazioni, e una minima fetta di ricavi commerciali (merchandising), quest’ultima più marcata nelle omologhe realtà inglesi, ma anche tedesche e spagnole. L’aumento dei ricavi non è però stato proporzionale a quello dei costi, che con l’affermazione del modello calcistico inteso come un vero e proprio business, hanno subito un progressivo e vertiginoso aumento, costituito inequivocabilmente in larga misura dall’incremento degli ingaggi dei calciatori, anche in seguito all’apertura delle frontiere avvenuta con la nota “Sentenza Bosman”, che ha contribuito in maniera massiccia ad un mutamento della dimensione del calcio da domestico-nazionale a internazionale, anche a livello di club. Se in una nazione come gli Stati Uniti l’imprenditoria entra nello sport, oltre che per un mero interesse affettivo, anche per ottenere una congrua remunerazione economica, nello sport italiano, e forse più in generale in Europa, questo ingresso è di fatto un canale per ottenere visibilità ad ogni costo, talvolta anche insostenibile. E così, con il passare del tempo, l’azienda calcio si è trasformata in una macchina fondata sul debito, per la quale è stato necessario individuare e perseguire delle fonti d’introito alternative per la sua stessa sussistenza, ed è in questo contesto che vanno inquadrate le plusvalenze (reali o fittizie), il cui perseguimento da parte dei club è risultato ormai quasi imprescindibile. Se fino a poco tempo fa Chievo e Cesena erano state le uniche due società effettivamente punite dalla giustizia sportiva per la produzione di “plusvalenze fittizie” (queste ultime comunque ancora di difficile individuazione vista l’impossibilità ancora sussistente di definire un valore oggettivo del cartellino di un giocatore, derivante dalle interazioni nel libero mercato) lo scorso 20 gennaio è arrivata una pesante penalizzazione di 15 punti per la Juventus, rea di aver abusato della pratica precedentemente citata, unita all’inibizione di undici dirigenti di quella che può essere definita come la principale società calcistica italiana, e tra le più importanti per storia e dimensioni anche a livello europeo, tra i quali il dimissionario Presidente Andrea Agnelli, definito unanimemente come l’artefice della rinascita in casa bianconera dopo la retrocessione del 2006 in seguito allo scandalo Calciopoli, con la successiva conquista di nove Scudetti consecutivi dal 2012 al 2020. L’inchiesta, che vede coinvolte altre otto società momentaneamente prosciolte, ossia Sampdoria, Pro Vercelli, Genoa, Parma, Pisa, Empoli, Pescara e Novara (poi fallito) conferma come quella delle “plusvalenze fittizie” sia una pratica largamente diffusa tra i club italiani e che necessiti inevitabilmente di nuove disposizioni normative per l’efficace contrasto di questo fenomeno fraudolento, in un’ottica più generale di rimodulazione di un sistema che necessita di ritrovare una maggiore economicità. |
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